La festa della vita consacrata, che abbiamo celebrato qualche giorno fa, è stata per me occasione per fare memoria. Prima di tutto memoria della chiamata che ho sentito a questa vocazione, per ringraziare il Signore di questo dono e del cammino ricco di bene in cui sto muovendo i miei passi di consacrata, come suora e nella famiglia elisabettina.
È stata occasione anche per ricordare le consacrate e i consacrati di altri istituti, congregazioni e ordini che ho incontrato e conosciuto, affidando al Signore e alla sua cura e guida il cammino di ciascuno. In particolare poi sono risuonati in me i bei giorni di fraternità e di formazione che ho vissuto agli inizi del mese di gennaio ad Assisi, insieme a tante altre giovani suore francescane che, come me, sono juniores, ovvero nel periodo di formazione alla vita religiosa (lo juniorato) che comprende gli anni dalla prima professione dei voti temporanei fino alla professione solenne.
Una scomodità scelta e amata
I temi che abbiamo approfondito in questi giorni di convegno erano legati al mistero dell’incarnazione di Dio e della nostra umanità, guardati attraverso gli occhi di S. Francesco e della sua esperienza vissuta a Greccio. Abbiamo avuto il grande dono di poterci recare tutte insieme proprio lì, a Greccio, nel luogo in cui Francesco ha desiderato celebrare il Natale attraverso un’esperienza che coinvolgesse non solo lo spirito, ma anche il corpo.
Francesco a Greccio non ha inventato il presepio vivente, con persone che impersonassero Maria, Giuseppe, Gesù bambino… no, Francesco voleva vedere “l’umiltà dell’incarnazione”, i disagi in cui Gesù si è trovato “per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoria e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”, come leggiamo nelle Fonti Francescane (FF 468).
Una mangiatoia tra un bue e un asinello: questa è la scena preparata da Francesco, questo è ciò che egli desidera vedere, toccare, contemplare, perché tutto questo parla di un Dio disposto ad accettare il disagio più crudo per amore; un Dio che si scomoda per noi e che non ha timore di venire a stare in una mangiatoia. Una mangiatoia che può essere il simbolo della nostra fame, di tutte le nostre fami: di affetto, di considerazione, di affermazione…
Dio dimora nella nostra umanità
La presenza di Dio nella nostra storia e nelle nostre scomodità è incondizionata, ovvero non pone condizioni: qui Lui sceglie di porre la sua dimora. Questa è la via dell’incarnazione ed è davvero un mistero da contemplare tutto l’anno, non solo a Natale, perché parla in profondità di quanto sia importante anche per noi accogliere la nostra umanità e quella degli altri nella sua fragilità, povertà e bellezza, proprio perché è incondizionatamente amata da Dio.
Il nostro sì al Signore nella vita consacrata è un sì da incarnare nella nostra storia, nella nostra umanità (con i nostri talenti e fragilità), dando voce ai nostri desideri profondi, in continuo dialogo con il Signore. È un cammino in cui portare tutto di noi stesse, senza lasciare fuori nulla, affidandolo alle mani buone di Dio, che ci insegna ad amarci per poter amare pienamente Lui e gli altri.
Nella gioia della fraternità
In quei giorni ci siamo molto confrontate tra di noi su tutto questo, condividendo esperienze e vissuti, anche con il desiderio di camminare insieme, perché è bello non solo condividere ma anche coltivare sogni e pensare a progetti. È bello confrontare le nostre idee, cercare strade possibili per valorizzare le diversità, unendole nella fraternità. Proprio camminando insieme infatti è possibile imparare ad accoglierci dalle mani di Dio, vedere la nostra umanità con i suoi occhi e rendere la nostra vita testimonianza bella del Vangelo, nella gioia che nasce dall’avere Dio per noi e con noi.
suor Chiara Zanconato